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Riassunto

«Trattiamo dunque della poetica in sé e delle sue forme, quale potenzialità ciascuna possegga e come debbano comporsi i racconti (πω̑ς δει̑ συνίστασθαι τοὺς μύθους) perché la poesia riesca ben fatta» (1447a8–10). Così Aristotele comincia la sua Poética. Egli usa senz’altro la parola μυ̑θοι, perché così ormai si chiamavano i «discorsi» fatti dai poeti92, anche quando la loro materia, come nel caso della tragedia, apparteneva ad una veneranda tradizione (1451b24). Solo dopo aver spiegato che la poesia è tutta quanta «imitazione» (μίμησις) e che a differenza della pittura o della musica essa imita con le parole, e che imita «quelli che agiscono» (τοὺς πράττοντας), o riferendo quel che fanno, come talvolta l’epica, o direttamente (ἄνευ απαγγελίας)93, come sempre la tragedia e la commedia e talvolta l’epica, il filosofo precisa che cosa lui intende per «mito»: «poiché (la tragedia) è imitazione di un’azione, ed è agita da alcuni che agiscono, imitazione dell’azione è il racconto»; e aggiunge: λέγω γὰρ μυ̑θον του̑τον τὴν σύνθεσιν τω̑ν πραγμάτων (1450a3–5), «per racconto qui intendo la composizione dei fatti». Delle sei parti in cui la tragedia si lascia suddividere, il «mito» è la prima, proprio perché 1’elemento più importante ne è ἡ τω̑ν πραγμάτων σύστασις, «la composizione dei fatti» (1450a15)94, ovvero «la struttura dell’azione, la sua configurazione formale»95, che, ove non la si rappresenti con simboli e figure, solo il racconto, il «mito», può esprimere, ed esso rimane tale anche se ai nomi propri sostituiamo quelli comuni96.

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Serra, G. (2002). «Mito» e «imitazione». In: Da ›tragedia‹ e ›commedia‹ a ›lode‹ e ›biasimo‹. J.B. Metzler, Stuttgart. https://doi.org/10.1007/978-3-476-02879-2_5

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  • Publisher Name: J.B. Metzler, Stuttgart

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